di Federico Bonelli

Ho visto Marie-Pierre Murigneux muoversi una sera di tre anni fa nel Rood Bioscoop, il cinema rosso, un teatrino minuscolo ad Amsterdam. Il suo danzare era costruito da segni molto forti posti con inconsueta dolcezza con un effetto squisitamente melanconico. Ricordo che l’impressione in quello spazio ridotto fu come se il soffitto fosse altissimo, mi vennero diverse immagini: il fondo di un crepaccio, una via cava etrusca, un luogo buio ma asciutto tra grossi tronchi di quercia. Protetto e squisitamente ipnotico, dove il tempo si dilata.
Oggi abbiamo il piacere di ospitare Marie fino al 22 Ottobre nella residenza rossonove ad Alassio.

Marie si fa fluire nel movimento che la circonda per “vedere di nuovo”e lo anima traducendolo in segni, siano sia disegni su carta che movimenti da afferrare in presenza, “allo stesso tempo” del movimento; spettatori di un attimo di vita che aspira alla connessione tra l’artista, il tempo che condivide con noi, l’intenzione che lo anima e il momento che si vive, accettando tutte le sue complessità espresse o inesprimibili. E’ una intuizione coerente del mondo, che viene sentito come se fosse tra due superfici permeabili. Me le immagino come l’interiorità o l’esteriorità della persona, o come il privato e il pubblico, o nella differenza tra l’oggetto della grande storia e il racconto domestico o la fiaba. In questo spazio che è sottile ma reale, il lavoro dell’artista consiste di volta in volta nell’osservare le figure che ondulano le superfici dell’esserci, nell’immergersi nell’una o nell’altra o nel lasciar cadere un sasso in quel fiume astratto, non solo personale ma anche spazio condiviso.
Nel proporsi per la residenza Marie-Pierre ci ha anche intrigato con i suoi disegni, parti affascinanti del processo creativo a tutto tondo che la anima. Delle sue grafiche Marie-Pierre ci scrive:“Cerco di creare questi disegni come un antidoto alla potenza”. Un antidoto? Quali sono i veleni che cura?
La ricerca della potenza come potere di opprimere è certamente un veleno, che si inoculi nella natura, nel vicino o sul proprio corpo e sulla propria vita. Se presi dalla frenesia del tempo, da quella che Olivier Hamant chiama “la smania della performance”. Se invece si volesse estendere il concetto di frenesia da performance nello spazio non basta forse camminare nella piccola striscia di Liguria tra le montagne e il mare? Non sembra che questo luogo negli ultimi 150 anni sia malato di una fresnesia dello spazio, di un non vacuum horribilis, che alterna, con le stagioni, pieno e frenesia a vuoto sonnolento?
Anche se è dovere dell’artista mostrarsi, questa lentezza, che Marie invoca non è paradossale. L’artista, immerso nel flusso emozionale interiore e nel il fluire dello spazio che lo circonda, ha un altro scopo, immediato anche nel senso di limitare i passaggi di mezzo. Come se la sensibilità per la luce superiore debba diventare un fenomeno orizzontale, aperto alla solidarietà e all’essere di chi ne risuona. L’azione rifugge dall’essere protagonista e chiede testimonianza, di nuovo, presenza. L’artista presta se stesso insieme all’evento che scrive nel tempo-spazio ad un idea a-temporale di cura: non un bello-per-se ma -credo- un bello-per-guarire. Se stessi? La città? Il mondo?
Vedremo presto come Marie-Pierre trasformerà incontri, cose e immagini della Liguria che ha vissuto in questa breve esperienza Ligure. Per ora possiamo soltanto condividere la gioia di ospitarla e la curiosità dei bambini che aspettano che, dal buio del palcoscenico, appaia la musica.
